CITAZIONE
Titolo: Il Condannato Autore: risefire Fandom: // Rating: Giallo Conteggio parole: 1978 Note: //
Il pendolo dell’orologio posizionato nella sala centrale di quel sontuoso,ma al contempo essenziale nelle cromature, edificio fece risuonare in quell’aria insana e carica di tensione il greve rintocco di un’ora qualsiasi della notte. Una notte che dall’esterno poteva apparire placida e argentea per via della meravigliosa luce emanata dalla luna, ma che tuttavia non si sarebbe dimostrata tale. Le pareti di quel maniero apparivano scure durante le buie e di un insignificante e puro bianco di giorno; si vociferava, o era di comune accordo, che quella non-sfumatura trasmettesse serenità all’animo. L’arredamento di conseguenza non poteva che essere minimale e conforme all’ambiente: di certo non ci si poteva aspettare altro da un luogo del genere. Nessuno venne svegliato di soprassalto e nessun regolare respiro venne interrotto e nessuno tentava di fuggire da quella realtà; ma qualcosa si stava muovendo in quell’aria silenziosa, anzi qualcosa stava fluttuando. La figura che apparve dal nulla era vestita di una logora tunica di un grigio ormai sbiadito, il viso oscurato da un cappuccio altrettanto vecchio e lacerato. Non emetteva alcun tipo di rumore, sfiorò le tende ma queste non si degnarono di fare il minimo movimento. Niente mutava, nemmeno il tempo o lo spazio. Attraversò quei lunghi e soffocanti corridoi, fino a raggiungere una porta socchiusa in cui vi era qualcuno che continuava a svolgere incessantemente il proprio lavoro: oziare, seduto su una lussuosa poltrona ricoperta da un tessuto pregiato indiano, e contare i giorni prima delle ferie. Lavorava, per così dire, in un ambiente non totalmente illuminato, infatti bastava la pallida fiammella di una candela per quel tipo di attività. Inoltre, l’uomo dai tratti somatici severi e dalla conformazione fisica più che esile presente in quella stanza si lamentava laboriosamente del degrado della società, mettendo in atto un teatrino tanto comico quanto squallido. L’essere stava probabilmente attendendo il momento giusto prima di poter entrare, nel mentre anche lui sorbiva passivamente quel discorso unilaterale e sembrava comprendesse la lingua. Era giunto il momento: incredibilmente quell’essere dunque etereo attraversò la porta e si avventò ferocemente contro l’attore improvvisato nella stanza. La risolutezza con cui quest’atto venne compiuto venne impercettibilmente percepita dal direttore, tuttavia si poteva notare qualcosa nei suoi occhi: lentamente perdevano la tipica luce che caratterizza gli occhi lascivi e freddi, altrettanto lentamente il soffio vitale evadeva dal suo corpo. Senza il minimo movimento muscolare il corpo si irrigidì e ritornò con la testa appoggiata ad un braccio: sembrava che pensasse a cosa fare nell’infinito tempo libero che aveva, sembrava che borbottasse con il capo chinato verso il basso. Nulla di più normale, in fondo. L’essere che fluttuava era insoddisfatto dell’accaduto, non aveva raggiunto il suo obiettivo, così si voltò impercettibilmente e ripercosse il breve tratto che conduceva lo studio del direttore a quello di una precisa porta, di una precisa stanza, di un preciso paziente.
Il signor Anderson aprì gli occhi quella mattina come tutte le altre in quella specie di cella neutrale. Nulla che lo stimolasse, nulla che gli trasmettesse il più fioco accenno di emozioni. Si sentiva apatico, ma non era una novità, era una parte di se stesso. Gli sarebbe per certo piaciuto governare “le altre parti”, ma non era capace ed era proprio per quel motivo che lui si trovasse rinchiuso in quelle mura. Passava la prima parte della mattina mangiando di rado la poltiglia che gli propinavano come “colazione e immaginando sul candido soffitto scene assai macabre, in particolare una che era la sua preferita: richiamava un quadro che aveva avuto la possibilità di ammirare grazie ad una mostra giapponese e mostrava l’esecuzione di un giovane uomo nudo e inginocchiato davanti ad un altro in armatura, il particolare si poteva notare sul viso dell’uomo vestito di scaglie scarlatte: era la copia esatta della sua vittima. Anderson non aveva la capacità di definire se quell’illustrazione volesse dire di più, quindi rimaneva semplicemente inerme davanti alla criptica illustrazione. Capitava che l’armatura scarlatta si materializzasse davanti ai suoi occhi, ma tutte quelle cose illogiche erano all’ordine del giorno, per lui. Anzi, non era di certo la persona che versava nelle condizioni peggiori, lì dentro. Il cartello fuori stante, seppur eroso dalle continue tempeste di grandine e vento, riportava un messaggio ben chiaro ai più: “Clinica Psichiatra”. Quindi Anderson era stato considerato, tempo addietro s’intende, uno squilibrato, uno con “qualche rotella fuori posto”; tuttavia, soprattutto nell’ultimo periodo, gli eventi suggerivano che egli non soffrisse più di disturbi psichici, anzi sembrava esserne totalmente guarito. Egli trovava questo pensiero sintomo di una nuova crisi, ma la verità era un’altra: provava piacere nel vivere in quella pace quasi indisturbata, se non fosse per quelle “fastidiose visite perdi-tempo”, così le definiva lo stesso Anderson. Ed era proprio ad una di quelle visite che si stava dirigendo, a cui sicuramente avrebbe preferito ribellarsi come faceva la maggior delle persone lì dentro, ma l’estrema lucidità che dimostrava avere non glielo avrebbe mai permesso. Fu proprio nell’attimo prima di entrare nello studio a lui assegnato che si accorse di aver scorto qualcosa muoversi in modo snaturato non troppo lontano da lui, ma fu una visione rapidissima. Non si fidava più dei suoi sensi, pertanto sollevò nuovamente il capo nella stessa direzione. La visuale ora era ancora più oscura di prima, seppur ci fossero dei faretti illuminanti posti sulle pareti, e si accorse di trovarsi davanti un essere diverso dal genere umano. La reazione più spontanea, ossia provare quell’inebriante ed eccitante paura dell’ignoto, non si verificò, anzi venne richiamato verso l’interno di quel cappuccio. La sorpresa fu tale da mozzargli il fiato all’istante: i tratti somatici nascosti rivelavano una copia esatta della faccia del paziente Anderson, caratterizzata da un insano sorriso e da occhi che sembravano essere continuamente in cerca di qualcosa, un qualcosa che gli facesse brillare. “Lo desideri anche tu, non è vero?” , questa fu la domanda che il giovane Anderson si sentì rimbombare nella mente. Ora aveva solamente un corridoio vuoto da ammirare e fu come se niente fosse accaduto. Provato da una tale esperienza, che avrebbe potuto essere la peggiore da lui fatta, non aspettò altro tempo per varcare la soglia dello studio. Aveva bisogno d'aiuto, ancora. E ancora, quella notte si palesò ancora la creatura che, a differenza della notte precedente, aveva bene in mente dove avrebbe dovuto dirigersi e cosa avrebbe dovuto fare. Aveva dato prova di poter privare della stessa linfa vitale una persona priva della sfera d’emozioni tipica degli essere umani; ora niente le avrebbe potuto impedire di mettere in atto un ulteriore tentativo su un essere umano diametralmente apposto a quello alla cui vita aveva attentato. “Quella feccia.”, questo non era per certo un suo pensiero, ma aveva stampata nella sua mente questa semplice ma agghiacciante frase. “La casa” non era totalmente buia quella notte, non poteva vantarsi del silenzio più assoluto, perché l’accaduto della notte passata aveva scombussolato il precario equilibrio in quella clinica, pertanto qualcuno doveva pur poter avvisare in caso di ulteriori imprevisti. Infatti fu chiamata una custode tanto anziana quanto pura d’animo, così tranquilla e sulle sue che non si sarebbe potuto dire che fosse lì per sfoderare il coraggio e il sangue freddo da un momento all’altro; si sarebbe anche potuto dire che avrebbe tranquillamente potuto avere un attacco cardiaco da un momento all’altro. Qualcosa che si differenziava totalmente dall’assenza di emozioni attirò quell’essere fluttuante, che sembrava fosse più assetato rispetto alle ore passate. Quel qualcosa lo faceva sentire in qualche modo vivo e colorava il grigiore della sua lacerata tunica. L’anziana signora stava occupando il tempo in maniera creativa: cercava di comporre una sorta di album fotografico con le foto per lei più cariche di indelebili ricordi. In realtà, seppur il desiderio di far finire tutto fosse vivido, la creatura si fermò davanti a lei leggermente sgomenta; quelle foto la mandarono in confusione. Tuttavia passarono pochi secondi prima che agisse: provò una sensazione completamente differente da quella generatasi la notte passata, adesso si stava davvero nutrendo. Addirittura la reazione consequenziale fu diversa: la vecchietta non si era abbandonata sul freddo pavimento. Ora era capace di vedere ciò che prima risultava esserle impercettibile e invisibile e per di più ne vedeva il vero volto, tuttavia non era capace di reagire in alcun modo. Gli balenò in mente che quella faccia le era familiare. Il signor Anderson ebbe un risveglio, quella mattina, molto diverso rispetto a tutte le altre mattine: la sua mente era occupata da pensieri turbinanti riguardanti quello strano incontro o visione avuta esattamente ventiquattro ore prima, tuttavia anche qualcosa d’altro lo stava agitando già durante i primi minuti della sua nuova giornata: l’apatia tipica degli ultimi tempi era stata sostituita da un senso di nostalgia e di immancabile desiderio di rincontrare una persona, qualcuno che lui sapeva non avesse mai avuto a che fare con lui. La stranezza era accentuata dal fatto che potesse immaginare un vago ritratto di tale persona sul soffitto, come gli accadeva per la visione del Condannato. Non sarebbe passato tanto prima di tornare nella sua stanza dato che doveva solamente eseguire il solito controllo di routine. Mentre si stava dirigendo lo studio egli vide la custode sostituiva, con cui aveva legato nei primi tempi della sua permanenza lì dentro. Avvertì una stranissima sensazione che gli pervase l’intero corpo, in particolar modo azzerò per qualche secondo le sue funzioni motorie e psichiche ed è proprio in questo momento che rivide lo stessa figura del giorno passato di cui ora distinse i tratti somatici. Non ci voleva credere, eppur credeva di aver attenuato gli effetti del suo principale disturbo. Ritornò nella sua stanza, così comunicò la sua assenza e si mise nuovamente a riposare. Aprì gli occhi, ed era notte. Prese a parlare, come se sapesse già che fosse lì, con lui: “ Ti presenti nuovamente, dopo molto tempo. Ti dirò di più: sono sorpreso dalla tua nuova forma, questa volta non ti sei limitato a manifestarti solo in mia presenza. Hai agito seguendo le indicazioni del mio più profondo subconscio, quella parte che, almeno fino a pochi giorni fa, non sembrava fosse condizionata da te. Confesso, la prima volta che mi sei apparso davanti ho pensato fossi una normale allucinazione, ma evidentemente così non è. Mi devi perdonare, anzi oserei dire che devo perdonare me stesso, no? Che madornale errore è stato considerarti una semplice manifestazione immaginaria!Questa è stata la più grande offesa che io mi sia potuto fare! Dovevo capirlo sin da subito,no? Ti sei permesso nuovamente di sfruttarmi per toglierlo di mezzo, come avevi già tentato di fare parecchio tempo fa. Questa volta, tuttavia, ce l’hai fatta. Lo hai ucciso, il direttore. Esigo però che tu mi chiarisca.” L’essere, che ormai si era liberato del cappuccio, era l’esatta copia del signor Anderson. Fino a quel momento non aveva accennato il minimo movimento, era rimasto lì ad ascoltare. Le labbra si contrassero in un sorriso maligno e al contempo insano e una voce distorta ne uscì: “Anderson, mi lusinga il fatto che tu spenda parole così accorte per me. E smettila di parlare di me come se fossi una tua copia, smettila. Parti, purtroppo, da presupposti sbagliati: sono IO che ho voluto agire in quel modo. Ero stanco di quell’apatia sempiterna e così ho ben pensato di giocare con voi umani: siete così tremendamente ingenui e inconsapevoli oppure capita l’esatto opposto, di trovare persone con un briciolo di consapevolezza. Prima il direttore, ma la sua sfera emotiva era praticamente nulla, quindi ho finito per azzerargli la linfa vitale. In seguito la signora Pahmworth, così graziosa e così succulenta. Lei sì che aveva tanto da darmi, ed è stato meraviglioso godere di quelle emozioni. Non è in fondo questo quello che cercavi? Vivere. Se non con i soliti farmaci, ai quali soccombo, tu non potrai fermarmi.”
Su quella porta, la porta del paziente, vi era una targhetta: “Sig. Scott Anderson,” con un incisione molto piccola, “diagnosi: disturbo bipolare”.
Edit: ho messo a posto la questione "Fandom".
Edited by risefire - 7/9/2013, 16:36
|