CITAZIONE
Titolo: Automatic Teller Autore: lilium' Genere: Surreale, Introspettivo Rating: Verde Avvertimenti: // Word Counter: 1.740
Automatic Teller io ti racconto una storia, tu raccontane una al mondo
Nessuno lo vedeva uscire. E nessuno lo vedeva entrare. Eppure lui c’era, sempre; era sempre lì, ma era sempre altrove. Ovunque! Dico, ovunque nel mondo ormai si conosceva tutto di lui, quando era lui che conosceva davvero tutto degli altri. Una scritta sbiadita impressa sul lato destro, quattro pareti miste a ferraglia per uno scatolone al bordo di un minuscolo pianeta sperduto nello spazio siderale; anzi: al bordo di un’unica strada che, probabilmente, continuava all’infinito o s’attorcigliava intorno al mondo. Sebbene quella scatola fosse sempre stata lì, si poteva davvero pensare che avesse fatto il giro del mondo. Ma chi? Dove? Una scatola che si muove – che parla? Che racconta, più precisamente.
Alternava i suoi momenti di silenzio a quelli in cui la sua voce bassa e robotica, la quale puntualmente s’inceppava, superata da disturbi di frequenza, spiegava al mondo di tutto tranne che di sé. Nessuno in realtà la capiva: un tubo che usciva dalla parete destra, che a sua volta lasciava penzolare fili in cui si riversava tutta la potenza elettrica della propria esistenza, un foglietto con appunti incomprensibili, innumerevoli pulsanti dalle tinte brillanti, una struttura in metallo a metà tra un timone e uno di quei dischi di plastica usati nei telefoni d’una volta… è che non si sapeva da quanto fosse lì, o se ci fosse sempre stata; la gente, poi, si chiedeva anche se ci fosse sempre stato lui là, in quella scatola. E me lo chied(ev)o anch’io. Ogni giorno, da quel giorno.
Lui era lì dentro, immobile, così come i suoi occhi fermi, il suo respiro serrato, il suo naso triangolare, le sue mani raccolte in segno di meditazione: quando parlava non v’era ombra di un movimento, nonostante ci si aspettasse che per una storia grande vi fossero parole altrettanto grandi da fare quasi fatica ad uscire dalla bocca.
Lo stupore che balenava nel volto degli uomini che la vedevano per la prima, seconda, o anche centesima volta non cambiava mai, nonostante si stesse parlando di un disegno slavato, vecchio; era una sfida col tempo: non cambiava, ma cresceva! Soprattutto quando nel buio di quella stanzina di un metro quadro, in cui dimorava l’uomo – o qualunque altra cosa egli fosse – più stanco del mondo, si verificava un fenomeno strano che attirava addirittura la fauna tutt’intorno – anche se di fauna non ce n’era nello spazio aperto –, e tutti gli occhi dei bambini non riflettevano più le scintille dei suoi tubi lasciati alla dimenticanza, ma osservavano con attenzione quell’evento che nasceva sulla scia della caducità – nonostante i bambini, effettivamente, non ci fossero –. Dei tonfi leggeri, un rumore metallico, della carta che scendeva giù attraverso una tela bucata: alla fine di ogni storia che l’Automatic Teller raccontava, veniva rilasciato un foglio di colore bianco a forma di uccellino. Perché doveva volare lontano. “Io ti racconto una storia, tu raccontane una al mondo” – le uniche istruzioni impresse sulla ricevuta, oltre alla storia (o non-storia) della tua vita. Era un rito: funzionava così e non potevi farci nulla.
Una macchina sperduta in una porzione d’universo non meglio identificata, un automa che parlava ad ogni persona della Terra, nonostante questa fosse lontana anni luce, che registrava ciò che proferiva su biglietti indirizzati ad ogni uomo di quel pianeta rotondo, blu, verde, difeso da colonne di nuvole sparse. Non c’era spiegazione al come e al perché producesse tutta quella carta, da dove la tirasse fuori; si sapeva solo che questa usciva e raggiungeva il destino d’ogni persona – che era il destino di ogni persona.
La voce di quel macchinario, che da sempre si ripeteva rimbalzando tra i corpi celesti e nascondendosi nei più profondi pertugi dell’universo, venne intercettata da un curioso viaggiatore dello spazio – e lui, semplicemente, accettò l’invito. Con grande sorpresa, su un minuscolo pianeta dal terreno gabbrico, l’attendeva l’Automatic Teller. Così c’era scritto sul lato destro dello scatolone di ferraglia, per metà nuova per metà arrugginita.
Egli avrebbe potuto giurarlo con la mano sul cuore, anzi, sul fuoco stesso! Eppure nessuno, dopo il suo ritorno sulla Terra, gli avrebbe creduto. Ma lui continuava a ribadirlo: c’è una macchina speciale, lì, da qualche parte, che ci parla di noi e ci conosce tutti meglio di noi stessi. Io l’ho vista. Mi ha parlato di tante storie e io, come un bambino, ero lì seduto ad ascoltarla, a farci amicizia. Prima le raccontava ad alta voce poi, una volta concluse, le imprimeva su un foglio di carta a forma di uccellino e queste, lo giuro, queste prendevano il volo e si dirigevano verso l’attore che le avrebbe recitate. Quel copione era il più grande ed il più bello, ogni volta. Non sapevo decidere quali erano le storie migliori: ah, quanti ricordi! Quanti non-ricordi!
Tutte le storie di ogni persona si muovevano nella sua testa come miliardi di formiche, ed ognuna di queste gli scaricava addosso un brivido che percorreva tutto il corpo: tremava, sorrideva, si mordeva le labbra e pensava a quanto ogni vita sulla Terra fosse straordinaria ed irripetibile. Straordinariamente irripetibile. Ricorderà per sempre il nome della signora che, a qualche giorno dal suo ritorno sulla Terra, avrebbe vinto al superenalotto; eppure era troppo emozionato per ricordare i numeri. La frenesia era il placido lago in cui lui si tuffava ancora e ancora, esattamente come si immergeva in quelle storie; un’apnea che avrebbe cancellato ogni cognizione del tempo e delle percezioni: se avesse potuto, sarebbe rimasto lì inconsapevole fino alla vecchiaia, tra un sorriso e una lacrima che quelle storie gli strappavano. Tra le più buffe, ma più meravigliose, v’era ad esempio la storia del salto al centro del mondo. In un futuro prossimo la società avrebbe radunato quante più persone in un unico punto della Terra, poi avrebbe detto “saltate”. E loro, con le facce più buffe, sarebbero rimaste sospese in aria, poi sarebbero cadute. Alcuni dall’altra parte del mondo avrebbero giurato d’aver sentito la scossa!
Tuttavia, talvolta, gli uccellini di carta prendevano una rotta diversa: volavano piano, galleggiavano in quel mare dell’universo, lentamente, dove non v’era una riva o un posto dove attraccare, ma solo maree che gestivano un unico, grande eterno flusso. In quel mare attendevano l’arrivo di un pianeta che, puntualmente, le attirava con la propria forza di gravità: cos’avevano di diverso? Quelle erano le non scelte. I ricordi che ogni persona non avrebbe avuto, quella porzione di destino incompiuta e sconosciuta che ogni uomo avrebbe lasciato alle proprie spalle. Un sistema fine a se stesso, per un moto che pareva sempiterno.
Con grande sorpresa, su quel pianeta che raccoglieva il non-destino di ogni uomo, lui avrebbe raccolto il suo uccellino di carta, il quale raccontava di ogni brandello di memoria che aveva finora ignorato e non conservato, e l’avrebbe allora vivisezionato. Poi avrebbe pianto le sue lacrime più amare. E andò esattamente così; fu l’Automatic Teller, in un giorno tra gli infiniti che aveva vissuto, a raccontarlo e scriverlo: se avesse scelto di entrare in quel bar, quel 25 di settembre, ogni mattino seguente si sarebbe svegliato sotto delle lenzuola sfatte ma accoglienti, con affianco la donna della sua vita, e ad attenderlo nella pancia di questa ci sarebbe stata sua figlia. Con lei, con Meringa, egli avrebbe cucinato dolci per tutta la sua infanzia, avrebbero entrambi impiastricciato le mani nella felicità candida e bianca come la farina, e sarebbero stati insieme per sempre, ma soprattutto felici.
Aveva bisogno di conoscere di più – su se stesso, sulla macchina, sul perché – ma quello era un perché che non è dato sapere. Decise quindi che voleva ricordare. Portò con sé il suo uccellino, il quale a sua volta raccoglieva in sé le non-storie della vita dell’uomo, e a grandi passi tornò per l’ultima volta a deliziarsi con le storie dell’Automatic Teller. Almeno, finché il suo ossigeno poteva permetterglielo. Lesse di nuovo le istruzioni sull’uccello di carta: “Io ti racconto una storia, tu raccontane una al mondo”. Per ricordare, così, iniziò a disegnare, a dispetto della fallacità della mente e delle proprie memorie. Una dolce storia l’accompagnava mente la sua mano imprimeva le storie di tutto il mondo in un disegno: l’Automatic Teller. Fissò quella macchina almeno altre cento volte prima di dirle davvero “addio”. Poi lo disse. Strinse il suo disegno (di vita) e disse “Addio”.
Se eri fortunato potevi vederlo: per le strade di tutte le città s’aggirava un uomo strano, col cappuccio, col sorriso compiaciuto e con uno sguardo estatico. Nessuno lo vedeva uscire dal suo mondo. E nessuno lo vedeva entrare. Era sospeso a metà, era una lancetta che puntava alle sei ma anche a mezzogiorno. Egli portava tra le mani miliardi e miliardi di fogli totalmente identici, ma ognuno di questi era semplicemente il disegno di una macchina; se guardavi bene potevi leggere “Automatic Teller” sulla parete destra.
“Voi, che siete viaggiatori, che vivete delle storie irripetibilmente straordinarie e straordinariamente irripetibili: se mai vi capitasse di vedere un insieme di pezzi di ferro che vaga senza meta nello spazio, che canta le storie del mondo, prego, avvicinatevi, deliziatevi anche col più piccolo dettaglio che l’Automatic Teller vorrà proporvi! Sono sicuro che anche lui avrà bisogno di qualcuno che, di tanto in tanto, si sieda vicino a lui – e che, ascoltandolo, si commuova...”
Ogni palo di ogni città, ogni vetrina, ogni uomo: ormai tutti conoscevano quel disegno. Qualcuno poteva addirittura recitare a memoria l’appello impresso sotto di esso, che quell’uomo urlava silenziosamente - quotidianamente - per le strade di tutta la Terra. Era un rito: funzionava così e non potevi farci nulla.
Così, ogni mattina di ogni giorno, quando gli uccelli cantavano, se eri fortunato potevi vederlo: egli s’alzava dal letto con un’unica meta in testa: il mondo; allora appendeva ovunque quell’illustrazione, piena di nostalgia, l’avrebbe fatto fino alla morte – sorridendo (anche la persona più miope poteva vedere il suo sorriso, che fosse lontana un metro o cento chilometri!); gli piaceva sentirsi vivo così, appendendo le storie di tutti in ogni angolo della Terra, e quando gli uccelli cantavano lui sorrideva ancora, sempre di più, poiché non poteva non pensare che, tra di loro, si stessero raccontando le storie di tutto il mondo.
Edited by lilium’ - 24/9/2012, 23:21
Nulla cambierà nel mondo, con te.*In un'epoca lontana, al tempo degli Dèi, vi fu la genesi della stirpe umana.
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